Le immagini che pubblichiamo danno il senso della vastità di quella che è sicuramente la più grande emergenza forestale che la nostra collettività abbia dovuto affrontare, imputato principale è un piccolo insetto del gruppo degli Scolitidi, noto come bostrico del tipografo (Ips thypographus) che attacca prevalentemente l’abete rosso in condizioni di stress o danneggiato, si sviluppa sotto la corteccia scavando gallerie che interrompono il flusso della linfa causando inevitabilmente la morte delle piante in breve tempo. Il bostrico non è comparso in tempi recenti nei nostri popolamenti, è un organismo che fa parte dei nostri ecosistemi da sempre e che già in passato ha causato altre piccole o grandi infestazioni, in condizioni di equilibrio nell’ecosistema bosco svolge una funzione fondamentale, attaccando le piante deboli e senza futuro dà il via ad un processo che permette al bosco di rinnovarsi.
Ricordiamo che tutto l’arco alpino ha subito e subisce enormi danni alle peccete montane (peccete non pinete come qualcuno si ostina a confondere) nel solo Veneto i dati disponibili indicano per il periodo 2019-2022 in circa 2 milioni i metri cubi di legname e in termini di superficie oltre 20.000 ettari di bosco. Un errore madornale sarebbe attribuire l’enorme espansione del bostrico ai soli eventi di natura eccezionale come la tempesta Vaia, anche perché si sta assistendo a straordinarie infestazioni del coleottero anche al di là delle Alpi: Austria, Repubblica Ceca, Germania, oltre che nei rimboschimenti di abete rosso negli appennini settentrionali, dove questo evento non c’è stato.
È bene ricordare che i nostri non sono boschi naturali, sono boschi modellati dal lavoro e dalle esigenze dell’uomo.
Ma quali le cause che hanno consentito al bostrico di passare rapidamente da una presenza endemica a una fase epidemica? Le cause principali sono fondamentalmente due:
- l’aumento delle temperature
- le scelte selvicolturali del passato
1. L’aumento delle temperature
L’aumento delle temperature, particolarmente significativo nelle zone montane, favorisce direttamente la vita del coleottero per due diverse ragioni: la prima è che la stagione favorevole al suo ciclo vitale si allunga e quindi il bostrico che mentre fino a qualche anno fa riusciva a completare una sola generazione oggi molto spesso ne fa due talvolta anche tre, un coleottero che si riproduce tre volte all’anno causa una crescita esponenziale della popolazione; il secondo motivo è che mancando inverni veramente rigidi, quelli che purtroppo ormai abbiamo quasi scordato, con diversi giorni di freddo intenso cala drasticamente la mortalità invernale delle popolazioni di bostrico, inoltre i lunghi periodi di siccità (soprattutto nel 2022), aumentano lo stato di stress dell’abete rosso fuori areale ne allentano le misure difensive rendendolo più vulnerabile agli attacchi, va anche ricordato che le nostre peccete sono inquadrate nelle classi di fertilità fra la sesta-settima e in alcuni casi nell’ottava, in una scala da 1 a 10 dove la prima è la classe migliore e la decima la peggiore, peccete che già di per se crescono in condizioni di forte stress.
2. Le scelte selvicolturali del passato
È corretto puntare il dito contro le scelte di gestione forestale del passato? No nel modo più assoluto!
Le scelte effettuate sono state prese in condizioni completamente diverse da quelle che possiamo vivere oggi (tutti noi ricordiamo le piantumazioni in occasione delle feste degli alberi, la mia generazione in particolare il rimboschimento di Pino nero in loc. “Preent” dove adesso sorge il bosco della musica), la pratica forestale ha favorito l’abete rosso perché cresce bene in modo molto rapido (anche fuori areale) un legname utile a una filiera del legno che in quei anni si stava espandendo, con l’attività forestale si è dato inoltre una risposta occupazionale a persone residenti in gran parte nelle frazioni montane, in periodi molto più difficili degli attuali, impiegandole nei rimboschimenti e nei decenni successivi ha generato un’economia per la montagna che non dobbiamo dimenticare.
Nel nostro patrimonio l’abete rosso è stato piantato e favorito la sua crescita oltre il proprio areale.
Le particelle forestali n. 7 (Tet- Bedola), n. 8 (Zibellino), n. 9 (Cavrade), n.11 (Croce Marino), n. 12 (Camussone), n.13 (dosso dei Lochi) per citarne alcune, sono state oggetto di piantumazioni negli anni 50, tutti noi, con i capelli ormai bianchi, ricordiamo vaste aree recintate con filo spinato a protezione dei rimboschimenti dal pascolo degli animali, ma anche dove la rinnovazione naturale era presente le prescrizioni dei piani forestali prevedevano forti tagli del ceduo e l’asportazione delle piantine che potevano ostacolare la rinnovazione dell’abete rosso.
Il rapido cambio delle condizioni climatiche sentenzia la fine delle peccete pure, dobbiamo iniziare a pensare fin da oggi a boschi che dovranno essere molto più resistenti di quelli che ci hanno lasciato i nostri nonni che possano creare servizi ecosistemici e generare economia, con funzioni ambientali e sociali, costruire boschi misti, disetanei a copertura multiplana.
È sufficiente fare una passeggiata verso il colle S. Zeno ed entrare nel bosco del “dosso delle bratte” o in quello del “doss del dress” per capire quale dovrà essere il bosco del futuro, boschi maggiormente diversificati.
Non abbiamo bisogno di foreste lasciate a sé stesse e abbandonate (“la natura si arrangia da sola” è il mantra di chi spaccia l’immobilismo per tutela ambientale), abbiamo bisogno di boschi gestiti. Abbiamo bisogno di riprendere pratiche selvicolturali per troppo tempo assenti dal nostro patrimonio forestale.
Questa sarà veramente la grande sfida dei prossimi anni.